Antica disciplina basata sull’uso della spada giapponese.
Giunta intatta fino a noi dalle tradizioni e dalla cultura del Giappone medioevale.
Forma non competitiva che pone il praticante di fronte all’avversario più temibile: se stesso.
L’ideogramma giapponese IAI ha anche il significato di “conoscenza dell’essere”.
Ai giorni nostri, infatti, l’uso di questo affascinante strumento, la spada, mira a stimolare nell’individuo il recupero di quelle doti di armonia, equilibrio fisico e psichico che le esigenze del vivere moderno hanno relegato nei reconditi recessi del proprio “io”.
Disciplina praticabile sia da uomini che da donne senza limiti di età.
Guida per il pubblico dei Campionati Nazionali Giapponesi di Iaidō
La storia dello iaidō e il senso della sua pratica ai giorni nostri
Il percorso fatto dallo Iaidō fino ai nostri giorni
Nel kenjutsu (tecniche di spada) ci si confronta con un avversario dopo aver sfoderato la katana. Lo Iaidō (o
battōjutsu, tecniche per sfoderare la katana) invece consiste in tecniche che hanno lo scopo di difendere la
propria incolumità sfilando in un attimo la katana dal fodero, nel caso in cui si venisse improvvisamente
aggrediti da un avversario. Il fondatore dello Iaidō è considerato Hayashizaki Jinsuke Shigenobu (1542?-
1621). La scuola da lui fondata si chiamava Shinmusō Hayashizakiryū e da essa derivarono in seguito una
ventina di altre scuole, come Ichinomiyaryū, Suiōryū, Tamiyaryū, Sekiguchiryū, Hasegawa Eishinryū,
Ōmoriryū, Hōkiryū e così via.
Nell’anno 9 dell’epoca Meiji (1876) venne promulgato un editto che proibiva di portare la katana, e questo
innescò una fase di involuzione nel kenjutsu: da circa 70 scuole che esistevano, rimasero solo una ventina di
scuole di Iaidō. Per risvegliare l’interesse per il budō nell’anno 28 di Meiji (1895) venne istituita
l’Associazione per le Virtù Militari del Grande Giappone (Dai Nippon Butokukai). In seguito il leggendario
maestro dei tre Hanshi (Kendō, Iaidō, Jōdō) Nakayama Hakudō, considerato il padre dello Iaidō moderno, si
recò a Tosa (l’odierna Kōchi nello Shikoku) ed apprese lo stile Musō Jikiden Eishinryū. Nakayama aggiunse a
quello che aveva imparato alcune sue invenzioni e così gettò le basi di quello che sarebbe di lì a poco
diventato un nuovo stile chiamato Musō Shinden Ryū, che assieme allo stile Musō Jikiden Eishinryū è uno
degli stili più diffusi nel Giappone contemporaneo.
Gli stili antichi e la nascita dello Iai della Zen Nippon Kendō Renmei
Dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, nell’anno di Shōwa 20 (1945) l’Amministrazione Americana
proibì completamente il Budō, ma nell’anno 27 (1952) il kendō rinacque grazie all’istituzione della Zen
Nippon Kendō Renmei, e nell’anno 31 (1956) lo Iaidō entrò a far parte della ZNKR. Negli anni 40 di Shōwa
(1965-1975) si assisté da un lato all’esplosione di popolarità del Kendō per i bambini, e dall’altro alla
trasformazione del kendō in sport, così che la ZNKR, pensando che si dovesse preservare e trasmettere alle
giovani generazioni lo spirito del Kendō in quanto Budō, stabilì lo «Iai della ZNKR», quello che di solito
viene detto «Seitei Iai» (Iai stabilito).
In origine si trattava di 7 kata (forme) in cui era condensata l’essenza di ognuna delle scuole antiche di Iaidō
trasmesse fin dai tempi antichi con il nome di koryū (ciò che scorre a noi dai tempi antichi), in modo che i
Dan alti di Kendō potessero apprendere il modo basilare di impugnare e utilizzare la katana (spada
giapponese) che è ciò da cui prende origine il Kendō. Ma, a dire il vero, lo Iai della ZNKR non si diffuse
molto tra i kendōka, mentre si introdusse nella pratica dello Iaidō.
Con l’apparire dei kata dello Iai della ZNKR divenne possibile imparare in tutto il Giappone le stesse forme
secondo uno standard unificato, ma non solo: fu possibile anche organizzare esami e competizioni in
comune, al di là del proprio stile antico, il che ha dato un impulso straordinario alla diffusione e allo
sviluppo dello Iaidō. Nell’anno 55 di Shōwa (1980) furono aggiunti altri tre kata ai sette originari, nell’anno
12 di Heisei (2000) ne furono aggiunti altri due, per un totale di 12 kata che costituiscono attualmente lo Iai
della ZNKR.
Il senso della pratica dello Iaidō oggi
È sorprendente come stia crescendo il numero dei praticanti di Iaidō, in particolare tra le donne e all’estero.
Può essere che uno dei motivi di una simile diffusione risieda nel fascino proprio della spada giapponese,
ma forse si potrebbe affermare che la vera ragione stia nella profonda spiritualità dello Iaidō. Del resto,
nell’epoca pacifica in cui ci troviamo a vivere, che senso avrebbe uno Iaidō finalizzato ad imparare tecniche
per uccidere con una katana?
Si dice che il senso ultimo dello Iai sia condensato nel detto saya no uchi, «dentro il fodero» (non sfoderare
la katana dal fodero). Se si sfodera la katana, uno o magari anche entrambi i contendenti finiscono per
ferirsi o morire. Il fine ultimo della pratica dello iaidō consiste in uno spirito pacifico che riesce a prevalere
senza bisogno di sfoderare la katana, evitando cioè un’inutile lotta con l’avversario. A tal fine è necessario
che il praticante giunga a possedere un hinkaku e un kigurai tali da impedire all’avversario di estrarre la
katana. Semplicemente questo e nient’altro è il senso della Via per la «formazione dell’essere umano» che
secondo la ZNKR rappresenta il fine ultimo della pratica del Budō.
L’utilizzo della katana dunque è un mezzo, non è affatto l’obiettivo della pratica. Mano a mano che si
accumula pratica impugnando la spada, si giunge ad assumere un portamento e modo di muoversi naturale
e bello, e cresce uno spirito che si prende cura degli altri dando loro importanza, quello che si chiama
«reihō». Inoltre cresce quello che viene detto «zanshin», uno spirito ricco e una sensibilità che è in grado
capire «mono no aware». Come nell’espressione «jikishin kore dōjō» (lo spirito sincero è il dōjō), è
possibile fare keiko non solo all’interno del dōjō, ma anche a casa propria, con i propri famigliari, nel
proprio luogo di lavoro, senza impugnare per forza la spada. E all’inverso, l’umanità ricca di cui ci si è
impadroniti tramite il keiko non resta racchiusa tra le mura del dōjō, ma va valorizzata nella propria vita
quotidiana e deve tornare a vantaggio del vivere in società. Questo potrebbe essere il senso della pratica del budō al giorno d’oggi.
Per osservare le competizioni di Iaidō
Nello Iaidō di solito i principianti utilizzano un’imitazione di spada che non taglia e dunque è più sicura,
mentre a partire dal 4° o 5° Dan ci si allena con una katana vera e affilata. Ma sia che si tratti di
un’imitazione, sia che si utilizzi una katana vera, non si combatte mai con un avversario vero. Nello Iaidō la
pratica consiste nell’eseguire dei kata che sono stati creati considerando varie circostanze in cui avrebbe
potuto svolgersi un combattimento reale, per cui ci si allena eseguendo i kata con un avversario
immaginato. Durante una gara due avversari si sfidano eseguendo contemporaneamente entro due aree,
una rossa e una bianca, delle tecniche stabilite. Tre arbitri decidono il vincitore, che è quello dei due
concorrenti che riesce ad ottenere almeno due bandierine. Nei Campionati Giapponesi la competizione
consiste nell’eseguire entro un periodo di tempo determinato (6 minuti) cinque tecniche stabilite in
occasione della gara.
Nello Iaidō non c’è mai un kata in cui si immagini che noi che eseguiamo il kata veniamo uccisi
dall’avversario e perdiamo il combattimento. Chi esegue il kata necessariamente vince. Se ci si limita
semplicemente ad eseguire un determinato kata in modo esatto e senza sbavature, non c’è la minima
tensione, finisce per essere una sorta di balletto formale e lezioso. Perché diventi vero Budō, è fondamentale
combattere con l’avversario immaginario come se fosse un avversario che abbiamo davvero lì davanti a noi,
e questo si dice avere un «metsuke» vivo.
Nello iai inoltre non vale il principio che la cosa migliore è sfoderare velocemente. L’obiettivo dello iaidō
non è uccidere gli altri, ma lasciare vivere gli altri. La katana non è satsujinken (una katana che uccide gli
altri) che uccide, deve essere katsujinken (una katana che dà la vita agli altri, che li fa vivere) che distrugge
il male e fa prevalere il bene. Forse molti di coloro che hanno visto una competizione di iai avranno pensato:
«Dal momento in cui si portano le mani alla katana fino a quando si sfodera, o dal momento in cui si è
caricato sopra la testa fino a quando si taglia dall’alto verso il basso, quanto tempo è passato!» Proprio così,
anche se l’avversario viene ad attaccare, noi ci opponiamo fino all’ultimo istante con un atteggiamento come
se dicessimo: «Non sfoderare! Non farmi sfoderare!», e se dopo il nukitsuke l’avversario mostrasse un
atteggiamento di resa, non ci sarebbe nessuna necessità di ucciderlo. Ma se non è possibile evitare lo
scontro, allora si deve manifestare uno spirito che pur con riluttanza assesta il colpo definitivo con la
coscienza di mandare quella persona nel nirvana.
Viene ricercata un’umanità elevata che non perde il suo tranquillo distacco anche qualora sia in ballo la
propria vita, e che non si dimentica mai di prendersi cura dell’altro. Dopo che il combattimento è finito, si
scrolla il sangue dalla katana con un movimento detto chiburi, e di seguito si ripone la katana nel fodero
con un movimento detto nōtō: in questa fase del kata non può esserci in nessun momento un cedimento
della postura o una mancanza di zanshin. Il ma, l’intervallo silenzioso che non dura più di un istante, in cui
si passa dal movimento alla quiete, è simile a quello che sul palco del teatro nō viene detto «senu hima» (un
intervallo di tempo in cui non si fa niente), è l’istante che meglio di tutti rivela la spiritualità dello iaidō e
che durante l’esecuzione di un kata va visto e apprezzato.
Fino ad oggi si è detto spesso che Kendō e Iaidō originariamente sono la stessa cosa, ken i ittai (Kendō e
Iaidō sono una cosa sola). Nella loro essenza Kendō e Iaidō sono uguali. Nello Iaidō, a differenza del Kendō,
non è questione di colpire od essere colpiti. Mancando questo fattore, non c’è bisogno di dare troppa
importanza a chi vince o chi perde, e proprio per questo si può anche dire che nello iaidō è più semplice che
nel kendō ricercare i principi ideali della spada.
(1) Reihō, abbigliamento e postura belli
(2) Modo di muovere la katana, i piedi e il corpo secondo i principi fondamentali (ri)
(3) Modo corretto di fare tenouchi e di utilizzare l’hasuji e lo shinogi
(4) Zanshin, metsuke, respirazione
(5) Hinkaku e kigurai.
I punti da osservare ed apprezzare per chi osserva sono davvero molti.
Nei Campionati Nazionali Giapponesi ogni provincia o area metropolitana seleziona tre atleti (5°-6°-7° dan)
e compone una squadra di tre elementi che poi partecipano alla competizione a seconda del proprio grado.
Chi nel pubblico osserva la competizione, può seguire il proprio interesse particolare e così, ad esempio,
apprezzare come un certo atleta muove il corpo o il suo zanshin o il suo hinkaku. Se si focalizza il proprio
interesse su qualche punto in particolare, probabilmente la visione del campionato piano piano risulterà più
appassionante. Saremmo felici se vorrete apprezzare il mondo dello iaidō fino alla fine della competizione.
(Testo: Miyazaki Kentarō Iaidō Hanshi ottavo dan)